Che valesse la pena vedere Nightcrawler - Lo sciacallo, lo avevo capito già dai 3
minuti scarsi del trailer; Il film, opera prima di Dan Gilroy, vi
terrà incollati alla poltrona e agli occhi a spillo di Jake
Gyllenhall: spiritati, invasati, a tratti demoniaci, ma che nascondono una morbosità che ci riguarda e ci tocca da vicino, ogni giorno.
La storia è quella di
Louis Bloom (Jake Gyllenhall), un giovane uomo in cerca di occupazione che vive di
espedienti, piccoli furti, per guadagnarsi da vivere. La sua, quella
di rubare, non è una scelta quanto una necessità, che sottende un
desiderio più grande ed “umano”, ovvero lavorare per qualcuno,
far parte di un gruppo, rendersi utile, sentirsi “devoto” ad una
causa nella sua vita.
La solitudine del
protagonista è, a tratti, uno degli elementi chiave del film, l'unica
forma di vita nel suo appartamento è una piantina di basilico a cui
maniacalmente dà l'acqua ogni giorno. Del suo passato non si sa
nulla, non sembra avere legami con nessuno e gli unici oggetti che
caratterizzano il suo look sono un orologio ed un paio di occhiali da
sole, entrambi rubati.
Durante una notte insonne
in giro per Los Angeles, Louis si imbatte in un incidente
automobilistico, sul luogo, accanto all'ambulanza, arrivano dei
videomaker che con cinismo e freddezza si adoperano a riprendere il
corpo in fin di vita della donna intrappolata nelle lamiere, senza
prestare attenzione ad altro che alla possibilità di fare
inquadrature il più crude possibili.
Louis lì capisce di aver
trovato pane per i suoi denti. Un lavoro che potrebbe non solo
fruttargli molto più denaro rispetto a quelli attuali ma che, se
fatto al massimo delle sue possibilità, potrebbe anche renderlo famoso, dare un senso alla sua vita, alla sua solitudine.
C'è profumo di Oscar per
Jake Gyllenhall e non bisogna essere degli addetti ai lavori per
capirlo perchè, quando un attore ti fa dimenticare totalmente chi
sei e dove sei per tutta la durata del film, parla il linguaggio
universale della bravura.
Sono diversi gli aspetti
che portano lo spettatore a riflettere, aldilà della qualità del
film stesso: lo script, la fotografia, il ritmo (a tratti “macchiato” da quell'eccesso di azione che
ricorda un po' Drive, ma che in un film americano puoi (o devi) sempre
aspettarti) ed, ovviamente, la performance di Gyllenhall (per alcuni critici anche a tratti caricaturale - l'attore ha dovuto perdere 10kg).
La verità non è quella che appare - A Nina (Rene
Russo) direttrice dell ' emittente a cui Louis vende i filmati al
limite dell'etica e di qualsiasi codice deontologico, interessano solo
notizie relative alla classe bianca agiata, niente quartieri
periferici ovvero zone in cui è "normale" morire o essere stuprati, derubati. Ed anche di fronte al cambio di direzione delle indagini
relative all'omicidio di una famiglia, avvenuto per motivi di droga e
non per mezzo di una rapina, la tesi che il telegiornale
continua a sostenere è quella della motivata paura per gli stranieri e per le violente
rapine nelle zone residenziali. Il motivo? Un regolamento di conti
per motivi di droga non terrebbe gli spettatori incollati alla tv per
tutte le ore di approfondimento successive.
L'agenda setting che il
giornalista ci propina, quindi, con il suo notiziario, non è più
“reale”, ma diventa un continuo fomentare paure e fobie,
toccare le corde dell'insicurezza della classe media, enfatizzando proprio
sui concetti più sensibili: “famiglia”, “casa”, “povero
uomo che tornava da lavoro", "onesto padre di famiglia".
Uno dei tanti apici di "sciacallaggine" Louis lo tocca
quando, su un frigorifero crivellato, sposta i magneti con le foto
della famiglia vicino ai buchi dei proiettili per rendere l'immagine
più “appetibile” per Nina e penosa per gli spettatori.
Se riflettiamo su quello
che tutti i giorni ascoltiamo e vediamo nei telegiornali, capiamo di
quanto questo modo di raccontare la verità si sia insinuato nelle
nostre vite e non sia solo la sceneggiatura di un film
particolarmente dissacratorio o cinico su certi meccanismi dei media.
Basti accendere la tv per
vedere quanti processi vengano quotidianamente svolti in diretta nei salotti della
tv, quanta morbosità ci sia nel cercare dettagli, testimoni, nel
vagliare carte processuali, raccogliere indizi a volte anche privati
e personali, decisamente fuori dal contesto (parlando di casi reali
di questi giorni, un esempio, l'omicidio di Elena Ceste: è
necessario dire che parlava su Facebook con altri sei uomini, che
cosa aggiunge al delitto, alla storia, vogliamo cercare per forza una
cornice che aggradi le nostre morbosità?).
Si è arrivati
addirittura a chiedere ai telespettatori, attraverso un sondaggio, se
si desideri vedere integralmente l'esecuzione di un ostaggio
dell'Isis. La risposta? “Sì”.
Ed è qui che sorge la
domanda:
sono i telespettatori a volere questa
morbosità? Perchè i media vanno lì dove aumenta l'audience, ma
l'audience in questione siamo noi, e siamo sempre noi che facciamo
volare lo share di programmi che tendono a questo eccesso di
voyerismo.
La stessa competizione tra un'emittente e
l'altra porta a cercare di avere sempre più dettagli, più sangue,
più morti, per attirare l'attenzione. Perchè un morto solo non fa
più notizia, come dice la stessa Nina a Louis svariate volte nel film.
Come spesso accade, forse,
la risposta è nel mezzo. O forse sono domande che abbiamo smesso di
porci e ci sarà sempre qualcuno che dirà: "Non si sa che è così?". Forse
si sa, ma il modo in cui Gilroy e Gyllenhall l'hanno raccontato resta
esemplare, almeno per me e per tutti quelli che hanno visto in questo
film un grande capolavoro.
Il personaggio di Louis
trova in questo lavoro la sua identità, quella che sin dall'inizio
del film gli mancava, il suo “posto nel mondo”, qualcosa per cui
si sente “bravo, portato”.
In realtà, la sua deriva
psicologica lo ha portato a diventare un omicida, un particolare che
omesso nei primi due minuti del film, trova conferma alla fine.
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